mercoledì 28 settembre 2016

di sguardi e sorrisi e, purtroppo, null'altro

Qualche giorno fa in biblioteca è arrivata una bambina, un paio di passi dietro di lei la madre. La bambina mi ha salutato, ha appoggiato sul tavolo uno zaino nuovo e coloratissimo (era evidente che ne andava molto fiera), l’ha aperto e tirato fuori i libri da restituirci.
Io l’ho salutata, ho preso i libri, l’ho ringraziata e aggiunto che il suo zaino era molto bello e aveva colori stupendi.
Lei si è voltata tutta contenta verso la madre e le ha detto, prima nella sua lingua e poi in italiano -  vedi mamma che avevo ragione e che non devi aver paura a venire qui. In questo posto sono tutti gentilissimi.
La signora mi ha guardato, rivolto un gran sorriso e  ringraziato in un italiano stentato. Io l’ho guardata e contraccambiato il sorriso.
A questo punto  potrei finire qui questo apologo un po' stucchevole, potrei aggiungere, ed è vero, che per qualche secondo mi è sembrato che il mio lavoro avesse ancora un senso (mi capita sempre più di rado).
E mentre guardavo la bambina con lo zaino colorato e la mamma andarsene, una carica di libri e l'altra accompagnata solamente dall'unica cosa che le potessimo offrire, un po' di gentilezza, mi sono chiesta quando abbiamo cominciato.

Quando abbiamo cominciato a pensare che dispensare sguardi e sorrisi a chi viene da un altro paese e non conosce la nostra lingua fosse sufficiente. Che ospitare al caldo d'inverno e al fresco d'estate chi non ha una casa, chi non ha un lavoro, chi ha problemi psichici potesse bastare. Quando seguendo l'idea che le biblioteche devono rispecchiare la nostra società (davvero? abbiamo aspirazioni e modelli così bassi?) abbiamo aperto le porte a tutti (sacrosanto, sia chiaro) e abbiamo lasciato tutti lì, in biblioteca a fare non si sa bene cosa, riproponendo esattamente quello che succede fuori: aree di emarginazione, insofferenze, non risposte ai bisogni.
Per carità, non dico che sia ovunque così ma, complessivamente, quand'è che abbiamo smesso di guardarci attorno, di leggere i bisogni della nostra comunità e progettare per dare risposte, e di inviare ad altri quando le risposte non erano di nostra competenza? Quando abbiamo sostituito alle idee l'aneddotica biblioteconomica?
Quando abbiamo cominciato a pensare che la biblioteca potesse essere il ricettacolo di ogni iniziativa, spesso scopiazzata da biblioteche straniere (l'erba del vicino), sempre decontestualizzata da ogni tipo di progettualità? Il tricot, prestiamo le cravatte a chi ha colloqui di lavoro, prestiamo gli sci, le chitarre, mettiamo un pianoforte, la pole dance (giuro), proiettiamo i film, la cena con delitto, l'apericena, la rock band, la jazz band, la musica etnica, il torneo di ballo, quello di burraco, il minigolf, il buffet e la spaghettata...
Quand'è che le nostre biblioteche sono diventate parchi giochi per bambini mai cresciuti, emarginando di fatto chi ha bisogni informativi, chi ha ha bisogni complessi chi, in nome di una concezione politicamente corretta ed ipocrita di accoglienza è lasciato a bivaccare tutto il giorno in biblioteca.
La signora che sorride sarà felice di sapere che sua figlia è trattata con gentilezza in biblioteca. Difficilmente la rivedremo. I suoi bisogni, così palesi per quanto inespressi ed inesprimibili nel suo italiano frammentario, non troverebbero risposta.
Quand'è che cominciamo a ragionarci?

7 commenti:

  1. Grazie Denise per questa riflessione. Come dicevo su Facebook (ma preferisco parlarne qui), io interpreto la tua domanda "quando è successo...?" come una domanda retorica. Non è successo, perché non abbiamo mai, realmente, cominciato a domandarci a cosa servisse una biblioteca pubblica dopo internet. Abbiamo continuato a essere "il posto dove si trovano i libri gratis", appiccicandoci sopra qualche teoria para-sociologica (spesso si è trattato di pure scemenze, linguaggio giornalistico, wishful thinking).
    Io ho qualche idea su quello che dovremmo (potremmo?) smettere di fare nelle biblioteche pubbliche, per lasciare davvero spazio (e tempo di lavoro) utile per una riflessione sensata. Ad esempio queste cose, che impiegano qualcosa come il 90% del tempo attuale dei bibliotecari, e che nessuno abbandonerebbe volentieri perché sono anche ciò che sostiene numero di presenze e prestiti: 1) smettere di consentire che le biblioteche pubbliche siano l'esternalizzazione delle accademiche (insomma niente servizi agli studenti), 2) abbandono della biblioteca generalista, 3) abbandono del servizio di prestito seriale di narrativa di intrattenimento (per quello bastano i mercatini delle parrocchie).
    So che suona (probabilmente, è) drastico e tagliato con l'accetta, ma alla trecentesima volta in cui una signora annoiata mi chiede la Ferrante, e alla trecentesima volta in cui uno straniero mi chiede un manuale per prendere la patente di guida (e non c'è mai perché non ci sono copie sufficienti), io me lo sono chiesto se vorrei che i soldi delle mie tasse venissero spesi così.

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  2. si. no. forse.
    cioè.
    se le biblioteche sono lo specchio della società di cui fanno parte, e lo sono, rispecchiano perfettamente l'heimat circostante: incerto nelle analisi nelle pratiche e nei fini, nebuloso informe e sostanzialmente che prosegue per inerzia su un piano inclinato (di poco) avanzando verso il ... boh.
    a me non dispiace che i soldi delle mie tasse vengano spesi ANCHE così. anche queste sono esigenze, e non vedo perchè debbano sparire tout court.
    parliamo invece un pochino di specializzazione delle biblio, non fare tutte piattamente le stesse stessissime cose, ma fare in una rete a base cittadina cose diverse: il prestito bestseller ai bibliobus e biblio di quartiere; la specializzazione per ... boh, materie? una di arte, una di musica, una di scienze/tecniche... per risolvere anche problemi di affollamento ridistribuendo gli utenti a seconda di quel che gli interessa.
    si però.
    a questo si sovrappone altro, cioè il FATTO che l'utente vuole qui e subito quello che sta volendo in quel momento. Sala Borsa in particolare ha il punto di eccellenza nella LOCATION in piazza a Bologna. chi viene a studiare o leggere o parcheggiarsi lì lo fa perchè è in centro, è lì. Se vi trasferite in una nuova piramide con 10.000 posti a sedere anche solo in Cirenaica, siete vuoti 24h.
    per quel che riguarda studenti: idem con patate, anzi patatine e hamburgher, gelato e via discorrendo: siete nell'ombelico del mondo e non se ne andranno mai, togliete i servizi restano dei cittadino qualsiasi che hanno diritto a un posto a sedere. succede ovunque, ma anche se gli studenti hanno biblioteche aperte, vengono in centro non c'è cristo che tenga. perchè la sera escono da lì e sono in piena movida. perchè il pomeriggio escono da lì e ci sono tutti i bus.
    SE ci sono idee nuove, vanno tirate avanti insieme/in parallelo/nonostante tutto questo.

    ovviamente, sono solo my 2 cents.

    serena

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  3. Ho provato ad aggiungere qualche altra considerazione qui: https://librarianscape.com/2016/09/28/spalancare-le-porte-e-poi/

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  4. Dubbi assolutamente legittimi. Ma... e se non ci fosse neppure questo?

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  5. Su tutte le premesse e le riflessioni di vario genere relative al presente posso anche essere d'accordo (anche se continuo a vederci una complessità difficile da semplificare), ma secondo me rimane aperta la domanda di fondo: Cosa dovrebbero fare oggi le biblioteche pubbliche? Quali servizi dovrebbero offrire? A chi si dovrebbero rivolgere? A cosa servono? E in cosa si differenziano dalle altre tipologie di biblioteca? Perché se non riusciamo a rispondere a queste domande allora vuol dire che è il concetto stesso di biblioteca pubblica a non reggere più alla prova dei fatti.

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  6. Secondo me gli approcci possibili sono 2.

    1. Ci manteniamo stretti a quelli che sono gli indicatori messi a punto per le biblioteche e cerchiamo di fare una cosa banale: mettere in piedi biblioteche belle, o decenti, secondo quei parametri. Lo facciamo in Italia? A volte sì, prevalentemente no, quindi già una classe dirigente bibliotecaria che si ponesse questo obiettivo sarebbe qualcosa a cui aspirare e potremmo chiudere il discorso qui.

    Oppure 2. Ci poniamo radicalmente al di fuori del "contenitore" biblioteca per come lo conosciamo e come si può sensatamente misurare oggi, e ci chiediamo quali urgenze ci siano a livello culturale in questo paese. A me pare difficile che le risposte siano esattamente la promozione della lettura, il piacere della lettura, o un'indistinta idea di reference. Potremmo rispondere che le priorità sono l'integrazione degli stranieri, la formazione continua degli adulti, il recupero almeno parziale del semi-analfabetismo, la fornitura di documenti a prezzi fuori mercato. (Li ho scritti come venivano, ma mi rendo conto che la mia percezione delle urgenze è in effetti proprio questa). Quali istituzioni rispondono a questi problemi? Le biblioteche farebbero meglio ad abbandonare alcune o molte delle loro attività a favore di questo, anche stravolgendo la loro natura? Ovviamente si tratterebbe di scelte politiche forti, motivo per cui non credo affatto che verranno fatte, perché alla fine le biblioteche pubbliche sono - e quando va bene - una funzione delle campagne elettorali di un sindaco che deve compiacere i cittadini, i loro pregiudizi e cliché.

    [Nota: il punto 1. mi è stato sommessamente suggerito dal nostro amico Giulio B., che è persona ragionevole. Il punto 2. è la domanda che io mi pongo e che nasce da un sentimento anche di esasperazione che si prova stando ai banchi informazioni e rendendosi conto che per la maggioranza del tempo si sta lì a fare cose senza alcun impatto reale su problemi reali].

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    1. Intanto forse i punti 1 e 2 non sono necessariamente alternativi. Comunque secondo me il punto 1 è almeno in parte più realistico, perché non ha esclusivamente a che fare con le scelte politiche. Mettere in piedi biblioteche belle o decenti in parte dipende dal lavoro che ci fanno i bibliotecari. Però questo punto implica anche un ripensamento del sistema delle biblioteche pubbliche sul territorio nazionale, perché io non credo assolutamente che si possano avere 8.000 biblioteche pubbliche (dico un numero corrispondente più o meno al numero dei comuni) belle o decenti e ben gestite e ben finanziate. E questa è una faccenda politica, che richiederebbe una visione d'insieme che non c'è, e anche scelte impopolari, e che lo sono persino tra i bibliotecari. Resta poi da capire se siamo tutti d'accordo su che cosa si intende con biblioteche belle o almeno decenti. Il punto 2 è - se possibile - ancora più complesso. L'integrazione degli stranieri, la formazione continua degli adulti, il recupero almeno parziale del semi-analfabetismo non è detto che possano essere affidati alla libera scelta delle persone; cioè se tu offri (in biblioteca o altrove) queste possibilità non è affatto detto che i potenziali destinatari scelgano di utilizzarle, se non sono obbligati a farlo. In questo periodo ho ripreso un po' a studiare le origini della biblioteca pubblica e alcuni grossi studi sull'impatto sociale fatti in America tra gli anni Quaranta e Cinquanta; ebbene, sorpresa, sembrerebbe che la biblioteca pubblica (e parlo di quella americana) non ha mai veramente raggiunto il pubblico al quale in teoria si rivolgeva (ossia quello che ne avrebbe avuto bisogno in teoria) e non ha mai effettivamente realizzato i suoi obiettivi di redistribuzione culturale (diciamo così). Allora, mi dico, evidentemente c'è un vulnus di fondo in questa istituzione, che ha credo in parte a che fare con quella che gli americani chiamano la "library faith", l'insieme di "pregiudizi" per cui tutto questo (le biblioteche, i libri, la lettura, la cultura) è buono e giusto e fa bene alla società, ma non si sa esattamente bene a chi e quanto. Infine, una postilla: resta il punto che la biblioteca pubblica per definizione è aperta a tutti senza filtro all'ingresso e alla più bassa soglia possibile; a meno di non mettere in discussione questo principio comunque bisogna in qualche modo capire che atteggiamento prendere e che fare con chi entra con motivazioni e finalità le più varie.

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